venerdì 9 dicembre 2016

La retina hi-tech in grado di restituire la vista a chi l'ha persa

Si tratta di una rivoluzione completamente made in Italy: niente di meno che la costruzione di un minuscolo pannello fotovoltaico in grado di catturare la luce per stimolare i neuroni e restituire la vista alle persone.
Il traguardo raggiunto è frutto dello straordinario lavoro di un team – composto da fisici, neurobiologi, ingegneri biomedici e chirurghi oftalmologi – realizzato nei laboratori del dipartimento Neurosciences and Brain Technologies dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova.

Il direttore scientifico dell'IIT, Roberto Cingolati afferma "Se i risultati saranno incoraggianti, dopo ratti e maiali potrebbe iniziare la sperimentazione sull’uomo".

Vale proprio la pena di dirlo: tenete gli occhi aperti....questa stupefacente innovazione sarà (si spera) presto tra noi...!!

Quando è la realtà ad ispirarsi alle serie TV


Negli ultimi anni il mondo esplosivo delle serie tv è stato dominato soprattutto dagli intrighi fantasy di Game of Thrones e dalle disavventure post-apocalittiche di The Walking Dead. Ma tra un drago e uno zombie, in questo 2016 a rubare la scena è stata la tecnologia, tornata alla ribalta soprattutto grazie a Black Mirror. Ecco spiegato in poche parole quello che Charlie Brooker (ideatore della serie) ha voluto raccontare...
Gli episodi autoconclusivi di questo show riescono a farci riflettere sui possibili pericoli derivanti dalla nostra ossessione per la tecnologia, che tra smartphone, realtà virtuale e internet ha ormai invaso ogni aspetto, pubblico e privato, della nostra quotidianità. Attenzione, però: Black Mirror non vuole essere una denuncia o una caccia alle streghe hi-tech. Quanto piuttosto un’interpretazione dello spirito dei tempi: in particolare nella terza stagione Brooker non disegna più scenari realmente distopici e lontani nel tempo, ma parla soprattutto di un futuro vicinissimo (direi: un presente). Dove intere vite vengono rovinate da pochi secondi di video finiti sui social network e la nostra esistenza, sia offline che online, dipende da quanto siamo disposti a essere ipocriti, confinati in bolle di percezione dove è vietato essere in disaccordo e si interagisce solo con chi ha le nostre stesse idee, vere o false che siano.





A questa serie si ispirano sia HUMAI, startup cinese, che Netflix con la nuova applicazione Rate Me.
Per quanto riguarda il concetto del "Be Right Back", da un lato è comprensibile il desiderio di colmare il vuoto lasciato dalle persone care, dall'altro è inquietante l'idea di poter essere clonati in base alle nostre attività sui social (anche solo clonati, indipendentemente dai social). Il progetto di Humai è sicuramente altrettanto ambizioso e, forse in misura maggiore, egoistico, poiché la volontà ultima è quella della propria "immortalità".





Parlando invece dell'app Rate Me, quello a cui riesco a pensare è esclusivamente negativo. Questo severo commento poiché, come viene mostrato nell'episodio, si andrebbe incontro ad una società ancora più ipocrita e fasulla e la personalità verrebbe modificata in base agli obiettivi che ci si è prefissati. Tutto ciò non vi sembrerà troppo lontano dalla realtà di oggi, infatti siamo ormai abituati ad essere sotto il costante giudizio altrui, frequentemente espresso addirittura da sconosciuti. I sempre più frequenti episodi di cyberbullismo ci dimostrano che non abbiamo bisogno di ulteriori mezzi per aumentare il disagio psicologico già esistente nella nostra società attuale.




Identità false: il fenomeno del "Catfish"

L'avvento di internet ha portato cambiamenti a dir poco epocali nella vita quotidiana: la sua diffusione a questo livello ha portato tra le altre nuove forme di relazione umana ed interazione, con l'uso di chat, forum e social network. Dietro questa tendenza alla socializzazione "indiretta" vi sono però dei rischi, il maggiore dei quali è sicuramente il fenomeno cosiddetto del "Catfish" (in italiano "pescegatto"), termine che descrive una persona che chatta, si iscrive a social ed intrattiene relazioni con altri utenti (spesso di natura addirittura sentimentale) mantenendo però un'identità falsa, fingendosi quindi un altro o comunque qualcuno che realmente non è.
Tale fenomeno ricevette una certa rilevanza a livello mediatico quando, nel 2010, uscì un docu-film incentrato su di esso: il regista e protagonista Nev Schulman racconta infatti la sua reale esperienza di quando fu "ingannato" ed iniziò una relazione telematica con una fantomatica ragazza, la quale si rivelò frutto della fantasia di un'altra donna. Il film ha poi ispirato la serie televisiva-reality di MTV "Catfish - False Identità", mantenendo lo stesso tema e contribuendo alla diffusione della conoscenza dell'argomento e dello stesso termine "Catfish".


Ci sono svariati motivi per cui un individuo potrebbe creare una "falsa identità" ed interagire tramite il web con altre persone: la paura di non essere accettati, una certa insoddisfazione riguardo la propria vita reale e la propria vera identità o anche la semplice noia. Secondo diversi studi, l'utilizzo dell'identità falsa porta un certo beneficio a livello psicologico: la possibilità di poter creare una figura immaginaria, applicarla come una maschera a quella reale ed avere interazioni con altri (che nella realtà non si avrebbe avuto il coraggio nemmeno di approcciare) utilizzando internet è certamente allettante e gratificante, soprattutto per chi come detto è insoddisfatto della propria condizione. Il supporto sociale è infatti preventivo nei confronti di possibili fattori di rischio psico-patologici, e la prospettiva sopra indicata è comunque gradevole e vantaggiosa, nonostante le implicazioni riguardanti l'identità personale che può ricadere nel falso. Siamo infatti in qualche modo predisposti a modificare alcuni aspetti della nostra figura per come appare all'esterno, a livello in questo caso di social network, soprattutto se ciò può apportarci piacere: lo ha dimostrato in particolare questo studio, in cui i soggetti avevano una diversa concezione del proprio sé reale e di quello implementato sul web, in cui infatti venivano sottolineati i propri punti di forza e minimizzati quelli deboli, cercando di rispondere ad una certa figura imposta a livello sociale.


Ma come funziona a livello psicologico tale processo? Nel 2004 John Suler pubblicò su CyberPsychology & Behaviour un articolo in cui descrive un possibile prodromo a tale tendenza: quando siamo online i filtri che di norma regolano la nostra comunicazione con il mondo esterno si lasciano andare, favorendo la nostra disinibizione nelle relazioni a livello virtuale. Tale effetto può portare a derive negative (basta pensare ai comportamenti offensivi dei cosiddetti "leoni da tastiera"), ma ha anche un risvolto positivo e di apertura agli altri e a sé stesso, potendo avere un mezzo per esprimersi "liberamente" e/o una persona con cui interagire a livello anche profondo.
La persona particolarmente incline a creare account falsi o "fake", spacciandosi per ciò che in realtà non è e traendone delle sensazioni piacevoli ottiene spesso punteggi bassi per quanto riguarda autostima ed autenticità in test appositi, derivanti a loro volta da un attaccamento (il rapporto con i genitori nei primi mesi di vita e come lo si è interiorizzato) insicuro: tali condizioni sono quindi potenzialmente fattori di rischio per sviluppare psicopatologie derivanti da tale circostanza di "falsa identità".
L'individuo che ne è interessato sta probabilmente sperimentando una deriva estrema e negativa del cosiddetto "falso sè". Autori come Donald Winnicott e Carl Rogers hanno elaborato e definito tale termine dagli anni '50 del secolo scorso: si tratterebbe di una sorta di maschera sociale, una dimensione che l'individuo utilizza per essere accettato dal mondo circostante e per nascondere il proprio "vero sé". Quest'ultimo normalmente domina la personalità ma, in alcuni soggetti, può "fuoriuscire" dai propri limiti fino a portare nei casi estremi ad una condizione psico-patologica. Chi arriva ad intrecciare relazioni sentimentali usando questa falsa "proiezione" di sé è sicuramente ad uno stadio ancora più vicino a tale circostanza, e necessiterebbe un aiuto per uscire da una dimensione dove il falso e il vero si incrociano e la menzogna è all'ordine del giorno.

Vret : la realtà virtuale per il trattamento di fobie

TERAPIA PER LE FOBIE BASATA SULL'ESPOSIZIONE ATTRAVERSO LA REALTA' VIRTUALE

Grazie al progresso tecnologico, la ricerca di alternative pratiche e meno minacciose all'IVET ha portato all'introduzione della VRET. Durante la VRET, il paziente è immerso in un ambiente virtuale dove affronta la rappresentazione virtuale dell'oggetto temuto. L'accettazione di questa modalità di trattamento è generalmente più alta rispetto all'IVET inoltre l'efficacia del metodo dell'esposizione non viene sacrificata.
L'uso della VRET ha provato di essere efficace nel trattamento di fobie specifiche come l'acrofobia, l'aracnofobia, paura del volo, paura di guardare.
Infatti la meta-analisi suggerisce che, nel campo dei disturbi d'ansia, la VRET è molto più efficace della IVET.
Si individuano altri significativi vantaggi della VRET rispetto alla IVET, includendo:
-il miglior controllo dell'ansia davanti allo stimolo poiché non si presenta come una vera minaccia, quindi il paziente non ha paura di rimanere ferito.
-le esperienze virtuali possono essere messe fermate, messe in pausa, fatte ripartire dal principio e ripetute per quante volte può risultare necessario.
-l'intero processo di esposizione può essere sperimentato in completa sicurezza e privacy nell'ufficio del terapeuta.
-nel caso di fobie animali la VRET risparmia il terapeuta dei problemi associati al procurarsi e il prendersi cura l'animale vivente.
-infine molti terapisti condividono l'opinione che la VRET rappresenti un trattamento più accettabile, efficace ed etico rispetto la IVET.





 Attraverso un visore il paziente è in grado di vivere l'esperienza che teme, i questo caso si tratta di fobia sociale, attraverso la realtà virtuale.
Il programma utilizzavo viene diretto dal terapista stesso che, attraverso un altro dispositivo, è in grado di modificare e regolare le impostazioni dell'esperienza stessa.

Pokemon Go: un aiuto inaspettato


All'inizio dell'estate 2016 il mondo è stato travolto da una vera rivoluzione nel campo dei giochi per smartphone: il lancio di Pokemon Go, applicazione sviluppata da Niantic che riguarda l'ormai famosissimo mondo dei Pokemon, è stato probabilmente il primo gioco a realtà aumentata che sia davvero riuscito a fare breccia nel mercato dei giochi per dispositivi cellulari. Il principio dell'applicazione è semplicissimo: il giocatore, che impersona un "allenatore" di queste creaturine, deve macinare il maggior numero di chilometri a piedi, andando alla ricerca di ogni Pokemon e collezionando oggetti presenti anche nei precedenti videogiochi.

Sembra quindi che la base di questo gioco sia fare uscire di casa i giocatori, magari facendoli interagire anche tra di loro. Purtroppo l'obiettivo è stato raggiunto solo in parte: gli allenatori escono di casa a camminare, ma a quanto pare non socializzano troppo fra di loro, anzi. Numerosissime sono state infatti le notizie riguardanti incidenti legati all'utilizzo di questa applicazione, da furti e rapine a ragazzini attirati in un certo luogo grazie al gioco a incidenti stradali causati dall'uso dello stesso alla guida.

Tuttavia, arrivano anche notizie positive, e inaspettate, riguardanti il gioco: sembra che sia in America che in Olanda alcuni ricercatori abbiano intravisto nell'applicazione un possibile aiuto contro l'autismo e la sindrome di Asperger. Numerose sono infatti le testimonianze di genitori che raccontano di come i loro figli autistici, prima impossibilitati a uscire di casa, si spingano a cercare le creaturine digitali e a interagire con i coetanei per avere informazioni riguardo il gioco. Peter Faustino, invece, psicologo scolastico di New York, commenta: "Il videogioco rappresenta un 'gancio sociale' che permette di condividere un'esperienza".
Dall'Olanda, invece, l’entusiasmo per la nuova app della Nintendo, definita una “manna per gli autistici”,  nasce dall’ Istituto di cura  “Parsassia Groep”,  nel cui sito effettivamente si legge  un report che affermerebbe che  Pokemon Go “aiuta gli autistici”. Tutta l’evidenza scientifica della scoperta è nella testimonianza di Lex Brouwer,  un infermiere psichiatrico che lavora al centro per l’ autismo Dijk & Duin dell’ Istituto Parnassia.


Ovviamente tutto queste idee sono solo ipotesi: non esiste ancora prova di validità scientifica che sostenga questa tesi. Tuttavia è un campo che si presta facilmente a sperimentazioni, e dal potenziale pressoché illimitato. Quindi perché non provare?



Video4Blind


Dopo aver reso operativo il sito/servizio “Ti tengo d’occhio” – www.titengodocchio.it e dopo aver creato la Blind List (una vera e propria lista nera) per denunciare quei programmi e quei siti che non possono essere utilizzati dalle persone non vedenti (ha fatto scalpore il caso del sito del Censimento on line dell’Istat), Vincenzo Rubano, 17 anni, ha deciso di ampliare ulteriormente il suo servizio prendendo questa volta in considerazione i video: perché i ciechi devono essere discriminati ed essere esclusi dalla loro “visione”? Probabilmente risulta difficile a qualcuno immaginare un cieco che, navigando in Internet, possa trovare e visualizzare un video sul proprio computer, eppure, grazie alle nuove tecnologie disponibili, ciò è possibile, anzi potrebbe (e dovrebbe) essere possibile. Il cieco che “guarda” un video può comprendere ciò che c’è sullo schermo sfruttando soltanto l’audio, interpretando i rumori ed i suoni per determinare che cosa stiano facendo i protagonisti ed il luogo in cui il video è stato girato. Ma cosa fare quando l’audio è semplicemente una colonna sonora e tutto il messaggio è riposto nelle immagini? A questo punto l’unico elemento a disposizione dei non vedenti per riuscire ad interpretare il video è costituito dall’area destinata alla descrizione testuale che, però, quasi sempre si limita a presentare sommariamente cosa è il video ma non cosa avviene durante. Da qui, dunque, l’idea di Vincenzo: perché non rendere questi video disponibili per i non vedenti con una semplice descrizione a parole di ciò che avviene?

L’intuizione dello studente leccese e la soluzione per risolvere questo limite di accessibilità è di una semplicità impressionante ma capace di portare ad una vera e propria rivoluzione mediatica. Il processo di “accessibilizzazione” dei video proposto da Vincenzo consiste in tre piccole operazioni a carico di chi ha pubblicato o intende pubblicare un video: 1. Aggiungere in coda al titolo del video la sigla (V4B); 2. Aggiungere nell’area “descrizione” che ogni video ha, un breve testo che racconti a parole ciò che viene espresso con le immagini;3. Aggiungere fra i “tag” del video la sigla V4B Video4Blind. Queste tre semplici azioni possono essere fatte da chiunque: non servono conoscenze tecniche, né tantomeno spese aggiuntive. In questo modo i non vedenti potranno sapere immediatamente e facilmente se il video è descritto oppure no, sarà infatti sufficiente leggere il titolo, e, cosa ancora più importante, potranno addirittura cercare tutti i video “accessibilizzati” semplicemente inserendo “V4B Video4Blind” nel motore di ricerca di Youtube, Vimeo o qualsiasi altra piattaforma. Dalle parole ai fatti. Per concretizzare quanto proposto da Vincenzo, in accordo con la sua scuola, è stato “accessibilizzato” un video spot realizzato dagli studenti dell’istituto leccese e pubblicato pochi giorni fa su Youtube.

Tecnologie e Software a supporto di studenti cechi e ipovedenti


Secondo l'OMS , sono più di 300 milioni le persone affette da una disabilità visiva grave e, 45 milioni di essi, sono completamente non vedenti. Secondo l'ISTAT in Italia gli alunni non vedenti ed ipovedenti della Scuola Primaria solo più di 4000. Lo sviluppo costante delle tecnologie informatiche per la didattica e dei software facilitanti dedicati ha consentito numerosi processi di innovazione nella prassi dell'azione didattica.

Proprio a tali sviluppi è stata destinata la raccolta di fondi avviata dall'Università di Milano per finanziare Math Melodies, una app per Ipad che insegna la matematica ai bambini non vedenti e ipovedenti con il supporto di una guida audio. Più in generale, numerosi sono ormai i sussidi tecnici utili, come ad esempio le lavagne a tracciamento luminoso per ipovedenti; numerosi sono anche i dispositivi per il computer ed il software didattico dedicato.
Ricordiamo ad esempio il progetto LAMBDA per l'apprendimento della matematica ed il programma Biblos, utile per gli studenti del Liceo classico poiché consente di leggere e scrivere testi in greco antico usando la normale tastiera o una tastiera Braille collegata al pc.
Vi sono invece perplessità in merito ad alcune Lavagne Interattive Multimediali (LIM), i cui software non sono compatibili con gli standard necessari per essere usati da persone con difficoltà visive.

Si ricordano poi altre esperienze interessanti, anche di logica più tradizionale, come ad esempio Life, un fumetto tattile realizzato dal designer P. Meyer, fatto di tavole senza colori, testi o immagini. I personaggi sono infatti cerchi in rilievo sulla carta che i lettori possono distinguere in base alla diversa pienezza o alle dimensioni.

Per quanto concerne le opere enciclopediche, invece, un interessante servizio di monitoraggio rispetto al mercato italiano viene fornito dal Centro Informatico per la Sperimentazione degli Ausili Didattici dell'istituto Cavazza di Bologna.

Naturalmente, nel supporto alla didattica, rimane fondamentale la trascrizione in Braille o con caratteri ingranditi. Per le trascrizioni ci si può rivolgere alle associazioni che forniscono questo servizio. La più importante è sicuramente la Biblioteca Italiana per Ciechi Regina Margherita di Monza. E' inoltre importante l'addestramento all'uso del registratore per i testi non trascritti in Braille o non stampati con caratteri ingranditi. I libri possono essere registrati da un adulto o ci si può appoggiare ad una nastroteca.

Segnaliamo infine "Vitual Eyes", un nuovo prodotto italiano pensato per aiutare più in generale soggetti non vedenti:

giovedì 8 dicembre 2016

Neglect App – QUANDO IL TABLET NON SERVE SOLO PER GIOCARE

La nuova frontiera della valutazione e della riabilitazione neuropsicologica passa dall'uso delle nuove tecnologie e una di queste è la protagonista della mia presentazione: la Neglect App, applicazione per l'iPad creata per essere usata dal clinico come supporto e integrazione al classico percorso di cura.


Patatine spaziali: le nostre tecnologie arrivano (anche) dallo spazio

http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Dallo-spazio-alla-nostra-vita-quotidiana-le-tecnologie-per-astronauti-che-usiamo-ogni-giorno-f39d906f-0df2-495a-86ea-77353e4c1742.html

L'universo è sicuramente uno spazio infinitamente affascinante e importante: è noto che per capire la nostra storia bisogna cercarne le radici lì. In pochi, però, sanno che anche le invenzioni più comuni sono in qualche modo collegate allo spazio: dalle patatine alle tute da sci.. tutte le tecnologie implicate sono state prima testate in quelle condizioni estreme!
Come si legge dall'articolo, l'universo è importante anche per l'applicazione delle tecnologie all'ambito medico, per questo motivo penso che sarebbe interessante indagare se esistano ricerche tecnologiche in ambito psicologico condotte a miliardi di km dalla Terra.

Space blanket o copertina di Linus?

Che cosa'è l'elettrosensibilità? 
Vi propongo un interessante articolo di Wired sul fenomeno dell'elettrosensibilità, disponibile cliccando sul collegamento qui sopra.
Qui di seguito invece trovate una clip della serie tv Better Call Saul, dalla quale prende spunto l'articolo stesso, che può darci un'idea su cosa significhi soffrire di questo dibattuto disturbo.
È interessante notare come il protagonista di questo filmato utilizzi una space blanket sia come scudo contro le radiazioni esterne, sia come consolazione quando legge sul giornale una notizia per lui poco piacevole.

 

I videogiochi fanno bene ai bambini?

Ebbene si! I videogiochi fanno bene ai bambini, a patto però che siano sportivi e non troppo violenti. Essi aiutano ad allenare, rilassare e ricaricare il cervello.


Uno studio condotto all‘Università del Minnesota ha dato risultati chiari. Dopo aver fatto giocare un gruppo di persone per più di 50 ore ad un videogioco che richiedeva un’alta concentrazione, è emerso che i partecipanti erano in grado di prendere decisioni più velocemente rispetto a chi non aveva giocato.
Quindi è stata dimostrata la veridicità di questo tema controverso sopratutto dal punto di vista dei genitori. Inoltre, quei videogiochi di logica o di quiz riuscirebbero persino a curare quei lievi disturbi da deficit dell’attenzione e ad accrescere il nostro quoziente intellettivo.





Per saperne di più clicca qui.

Tecnologia positiva: curare lo stress con la realtà virtuale

La Tecnologia Positiva ha l'obiettivo di progettare esperienze positive mediate dalle tecnologie informatiche; i principali ambiti di applicazione includono il trattamento dell’ansia, la riabilitazione neuromotoria, la creatività dei team e il miglioramento della qualità della vita nelle persone anziane, ma particolare attenzione è stata posta sulla prevenzione e gestione dello stress.
A tal proposito, secondo quanto affermano l’European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions e l’European Agency for Safety and Health at Work, in Europa, una persona su quattro soffre di stress sul lavoro e deve affrontare conseguenze psicofisiche piuttosto rischiose. 
Nel 2014, accanto alle terapie tradizionali, è stato introdotto un nuovo protocollo che integra la realtà virtuale e le tecnologie alla terapia cognitvo-comportamentale. L’idea di fondo è che l’esperienza nella realtà virtuale possa influenzare il comportamento nel mondo reale e viceversa. Le linee di intervento agiscono su due piattaforme: una virtuale e una mobile. Attraverso la piattaforma virtuale Neuro-VR2, il paziente rivive le situazioni di stress a cui è sottoposto nel contesto quotidiano. Gli esercizi hanno lo scopo di aiutare il soggetto ad apprendere abilità di gestione e regolazione emotiva e vengono svolti con la supervisione del terapeuta, il quale, grazie all’ideazione di biosensori e rilevatori di movimento, può anche monitorare la frequenza cardiaca e respiratoria dell’individuo sia durante le sessioni virtuali, sia nella vita quotidiana durante l’orario di lavoro. Questo consente al terapeuta di osservare il paziente in qualsiasi momento e di avere a disposizione informazioni oggettive. L’obiettivo principale è quello di migliorare la gestione del disturbo e i risultati ottenuti sono piuttosto soddisfacenti.


Fashion e realtà aumentata

La realtà aumentata è una tecnologia innovativa che permette di potenziare contesti reali con contenuti virtuali attraverso la sovrapposizione, al campo visivo dell’utente, di elementi interattivi come immagini e video. Anche i settori fashion e retail, per la loro natura fortemente evolutiva, si prestano bene all’utilizzo di questa tecnologia come supporto ed arricchimento della customer experience. Il connubio tra moda e tecnologia risulta essere oggigiorno sempre più vincente grazie alla tendenza di entrambe ad evolversi continuamente per soddisfare i desideri dei consumatori, i quali sono alla costante ricerca di ciò che è nuovo ed originale. La realtà aumentata viene utilizzata in questo settore principalmente per due finalità:
  1. migliorare e rendere interattiva l’esperienza nei punti vendita 
  2.  trovare un rimedio all’impossibilità di provare i capi qualora si voglia effettuare un acquisto online
Al seguente link vi sono alcuni esempi di realtà aumentata in questo settore:
http://www.thismarketerslife.it/marketing/retail/9-esempi-di-realta-aumentata-nel-fashion-e-retail/


La vita digitale nei bambini

È evidente che la tecnologia, nel terzo millennio, sia accessibile a tutti gli individui di qualsiasi età: anche i più piccoli ne sono completamente affascinati. In particolare, tra i bambini spopolano i dispositivi “touch-screen” grazie alla loro facilità d’uso. Per utilizzarli, infatti, non serve saper leggere o scrivere, ma basta muovere le dita e lo smartphone o il tablet rispondono. 
Da una ricerca della società americana “Common Sense Media”, è emerso che nel 2011 il 40% dei bimbi di 2 anni utilizzava quotidianamente uno strumento touch. Secondo lo psicologo americano Prensky, grazie alla plasticità del cervello infantile e alla capacità di apprendere velocemente, i “baby nativi digitali” sono trasformati strutturalmente dai nuovi media, sia per quanto riguarda la sfera comportamentale, che quella cognitiva. 
Tuttavia, è bene offrire una navigazione sicura e i genitori che hanno figli piccoli già alle prese con i new media devono fissare delle semplici regole per l’utilizzo: molto importante è preparare il bambino al distacco dal mezzo tecnologico, diminuendone l’impatto emotivo. Inoltre, devono essere posti dei limiti di tempo: a tale scopo, si può usare un timer che segni la fine del gioco, a prescindere dall’intervento di un adulto. 
L’American Academy of Pediatrics (AAP) ha, però, rivisto le precedenti indicazioni ritenute poco convincenti, sostenendo una nuova linea di pensiero, secondo cui non conta tanto il tempo quanto la qualità di quello che i bambini fanno davanti a uno schermo. Per questo motivo, i genitori devono dare un buon esempio e favorire un uso corretto delle tecnologie, che presentano dei rischi ma offrono anche numerose opportunità.

Il robot neurochirurgo

Negli ultimi anni si sta cercando di applicare, in numerosi ambiti, le nuove tecnologie tra i quali anche quello medico. A tal proposito il neurochirurgo, Francesco Cardinale in collaborazione con ingegneri del Politecnico di Milano ha pensato alla realizzazione di un sistema robotico per l’assistenza ai chirurghi durante operazioni di neurochirurgia. E’ stato pensato per inserire strumenti come sonde per biopsia o elettrodi per stimolazione cerebrale profonda attraverso dei piccoli fori praticati sulla testa del paziente. E’ un nuovo tipo di robot, concepito per le operazioni maggiormente delicate. La sua precisione si calcola in alcune centinaia di micron quindi molto più accurata di qualunque mano di chirurgo. Per mantenere un determinato orientamento ed evitare delle zone, che possono essere a pochi millimetri da quella che si vuole attraversare, l’accuratezza del robot è sicuramente maggiore rispetto a quella umana.  
 
 

Microsoft HoloLens: la realtà aumentata in contesti bellici



Una azienda ha per la prima volta impiegato le Microsoft HoloLens per la realizzazione di un elmo da utilizzare per scopi bellici: la realtà aumentata potrebbe presto andare in guerra. Per chi non lo sapesse, le HoloLens sono gli occhiali per la augmented reality del colosso della tecnologia di Redmond, e servono per mostrare informazioni aggiuntive sul mondo circostante senza però oscurarlo con uno schermo.
L'azienda ucraina sviluppatrice, "Limpid Armor", ne ha mostrato un prototipo durante l'ultimo Arms and Security show di Kiev. Pare che l'Esercito nazionale si sia dimostrato molto interessato per i primi test sul campo.

Si parla della possibilità di taggare elementi di interesse, rilevare immediatamente il personale amico, designare obiettivi, scorrere informazioni utili per le operazioni, fornire obiettivi ai droni.

L'elmetto al momento è stato testato solo in ambienti controllati, ma l'intenzione è di collaborare con forze militari attive per l'affinamento. Previste anche versioni future da impiegare nel settore traporti: sia per veicoli a quattro ruote che sugli aereri e per i droni.

Kinect e la riabilitazione dell'Ictus


Microsoft Kinect, inizialmente conosciuto come Project Natal, è un accessorio originariamente pensato per Xbox 360, sensibile al movimento del corpo umano; a differenza del Wiimote della Nintendo e del PlayStation Move della Sony, il Kinect consente al giocatore di controllare il sistema senza la necessità di indossare o impugnare alcunché.
Benché non si possa considerare un successo commerciale ( e a testimoniarlo sono le vendite piuttosto deludenti), Kinect rappresenta un utile strumento che , tra le tante cose, può essere utilizzato nella riabilitazione Neuropsicologica di pazienti colpiti da ictus, come mostrato in questo video:


L'uso di queste tecnologia rappresenta un enorme passo avanti per quanto riguarda la riabilitazione di pazienti con sindromi Neuropsicologiche. 

Investigazioni digitali nel DeepWeb

La peculiarità del deep web è l’elevato livello di anonimato favorito dall’utilizzo di particolari tecnologie, come Tor. Da una parte Tor garantisce un livello di anonimato che consente di trasferire in alta sicurezza i dati oppure di superare condizioni di censura presenti in alcuni paesi, dall’altra parte rappresenta il mezzo ideale per attività criminali. L’analisi forense dei client nei quali è stato installato “Tor Browser Bundle”, può aprire scenari investigativi interessanti, che smentiscono alcune certezze di anonimato garantite dai manutentori dello stesso progetto.

Ma che cos'è il Deep Web? Questo utile articolo di CNBC.com può fare chiarezza sull'argomento: http://www.cnbc.com/2015/06/23/from-drugs-to-killers-exploring-the-deep-web.html


Come possibili leggere dal sopracitato articolo, il Deep Web è una vera e propria miniera d'oro per quando concerne l'illegalità. Fortunatamente, grandi passi in avanti sono stati fatti per quanto riguarda l'investigazione informatica, anche nel nostro paese. Sono stati proprio questi passi avanti che hanno permesso di portare a termine l'operazione " Sleeping Dogs" , condotta dalla Divisione Servizio di Polizia Postale di Roma, che ha portato alla identificazione di 15 soggetti coinvolti nella divulgazione e produzione di materiale pedopornografico e all'arresto di 10 di esse.


Carlo Solimente, primo dirigente della Divisione Polizia Postale della Capitale, ha commentato: "Un risultato importante nel percorso di costante aggiornamento e adeguamento delle tecniche investigative alle nuove frontiere della criminalità, che oggi possono servirsi di complessi sistemi di anonimizzazione della navigazione, primo fra tutti le reti Tor” fa sapere la Polizia postale, che per l’operazione, coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Maria Monteleone e dal sostituto procuratore Eugenio Albamonte, si è avvalsa della collaborazione internazionale, in particolare dell’Fbi.

“I soggetti individuati si erano spostati dalla ‘rete in chiaro’ a quella ‘in scuro’ proprio per sentirsi più protetti” sottolinea la coordinatrice del Cncpo, Centro Nazionale per il Contrasto alla Pedopornografia On-line, Elvira D’Amato, che chiarisce come “proprio per questa ragione spesso i pedofili del ‘dark net’ non sono solo ‘consumatori’ di materiale pedopornografico, ma lo producono anche”.

“Abbiamo preferito condurre l’indagine sottocopertura raccogliendo anche la sfida delle nuove tecnologie” aggiunge D’amato, che precisa come “il Centro nazionale di contrasto alla pedofilia online sia anche costantemente impegnato nel campo delle indagini scientifiche“.

I benefici del Videogaming sull'attività cognitiva




L’ultima buona notizia per i videogiocatori arriva da Berlino, dove un gruppo di ricercatori del Max Planck Institute ha condotto uno studio i cui risultati sono stati pubblicati sul loro sito Max Planck Society e su Molecular Psychiatry.

I ricercatori hanno voluto osservare in che modo i videogiochi possono influenzare la plasticità del cervello (cioè la sua abilità di cambiare la propria struttura fisica nel tempo), visto e considerato che videogiocare è un’attività che prevede complessi stimoli cognitivi e motori e che contribuisce ad allenare svariate abilità.
Per fare questo è stato chiesto a ventitré adulti di 24 anni circa di giocare a Super Mario 64 per circa mezz’ora al giorno nell’arco di due mesi. Facendo delle rilevazioni tramite risonanza magnetica, e confrontandole con quelle di un gruppo che nello stesso periodo non aveva giocato ad alcun videogioco, è stato rilevato che per i videogiocatori sussisteva un “significante incremento di materia grigia” in ben tre aree del cervello: la formazione dell’ippocampo destra, la corteccia prefrontale dorsolaterale destra e il cervelletto bilaterale. Queste regioni sono responsabili di funzioni quali “navigazione spaziale, pianificazione strategica, memoria di lavoro e performance motorie”. Non solo, ma i cambiamenti sono stati più evidenti nei soggetti in cui il desiderio di giocare era maggiore.


Simone Kühn, scenziato superiore del Center for Lifespan Psychology del Max Planck Institute for Human Development, nonché leader dello studio, ha affermato: «Mentre studi precedenti hanno mostrato le differenze nella struttura cerebrale dei videogiocatori, il presente studio dimostra il collegamento causale diretto tra il videogioco e un incremento volumetrico del cervello. Questo prova che aree specifiche del cervello possono essere allenate attraverso i videogiochi.» I ricercatori ritengono che i risultati dello studio indichino che giocare ai videogiochi potrebbe aiutare a contrastare patologie che causano la riduzione della massa cerebrale quali schizofrenia, Alzheimer o Parkinson. 

“MOBILE HEALTH”, NUOVI STUDI SU METODI TERAPEUTICI VIA INTERNET


Nuovi studi pubblicati sulla rivista “ Frontiers in Psychology” suggeriscono che una terapia “internet based” meglio nota come “Mobile Health”, che consiste nella visione di video di pochi munuti di durata, possa migliorare in breve tempo l’umore della persona.





Provate a vedere se funziona anche con il vostro umore:

http://www.medicaldaily.com/mobile-health-interventions-happiness-393122

Il paradosso del rapporto tecnologie-violenza



Moltissime ricerche confermano l’idea che oggigiorno le tecnologie siano da un lato la chiave per la buona riuscita di un crimine, dall’altro anche la soluzione per gestire e combattere la delinquenza.
È noto infatti che l’applicazione delle tecnologie alla violenza ha permesso ai criminali di ridurre il rischio di essere identificati, ha creato nuove opportunità per commettere crimini, ne ha modificato le tecniche e il modus operandi e ha addirittura prodotto nuove tipologie di delinquenza (frodi tecnologiche, identity theft, …). Allo stesso tempo però, le nuove tecnologie svolgono un ruolo sempre più determinante nella lotta contro la criminalità, fornendo ai sistemi di giustizia nuovi mezzi per identificare e braccare i criminali e sviluppando tecnologie che aiutino a ridurre le occasioni di azioni criminali. Quest’ultimo concetto sta alla base delle strategie di “polizia predittiva”, per cui, grazie ad un approccio matematico (basato sull’analisi dei dati contenuti negli archivi di polizia) è possibile prevedere i luoghi, le persone e le situazioni più a rischio di violenza. (Per saperne di più: http://www.snewsonline.com/notizie/attualita/smart_cities_e_nuove_tecnologie_di_lotta_al_crimine-3707 )
Riassumendo, il continuo sviluppo delle tecnologie permette ai delinquenti di essere sempre più efficaci nei loro atti criminali e agli organi di polizia di essere sempre più efficienti nella lotta al crimine.

Tecnofobia: la fobia per la tecnologia


Per i “nativi digitali” potrebbe sembrare difficile da credere ma esiste una vera e propria fobia della tecnologia: è la tecnofobia.
In termini epidemiologici, alcuni studi hanno dimostrato che circa un terzo della popolazione nei Paesi industrializzati soffre di ansia da computer, con percentuali attorno al 5% di presenza di veri e propri tecnofobici. A soffrire maggiormente di tecnofobia, inoltre, sembrano essere le donne, sebbene questo sbilanciamento di genere stia svanendo nelle ricerche più recenti.

Lo stress da tecnologia, che ha come sintomatologia specifica l'ansia, l'irritabilità, il mal di testa e la difficoltà ad interagire con il computer; diviene una vera e propria fobia quando scatena avversione totale e incontrollata verso i computer, cui si affianca una manifestazione acuta d'ansia, che può comparire al solo pensare un eventuale utilizzo dei computer; ansia che si traduce in impossibilità ad utilizzare il computer, anche quando questo venga riconosciuto potenzialmente, con importanti conseguenze invalidanti, a diversi livelli.
Per quanto riguarda le variabili antecedenti e correlate, il costrutto di tecnofobia è stato spiegato in letteratura facendo ricorso sia ad abilità cognitive matematiche sia a fattori di personalità; in modo particolare, i tecnofobici mostrano alti livelli di nevroticismo.
Secondo un team di ricercatori britannici, dell’Università di Bath, inoltre, questa particolare fobia, potrebbe essere già scritta nei geni del piccolo ancora dentro la pancia della mamma, o, meglio nei suoi ormoni.
Sarebbero proprio gli ormoni le “spie”, che rivelano e consento la diagnosi prenatale della tecnofobia: nello studio, pubblicato sulle pagine della rivista Personality And Individual Differences, l’esposizione prenatale al testosterone ha un impatto sullo sviluppo del cervello, modificando l’atteggiamento del soggetto nei confronti della tecnologia durante la vita, rendendone più facile la comprensione o l’utilizzo.

Alcuni si sono chiesti se l'ansia da computer e la tecnofobia corrispondano ai criteri diagnostici del DSM-IV-R per le fobie specifiche.
In modo particolare, Thorpe e Brosnan nel 2005, dopo una serie di ricerche empiriche, sono giunti alla conclusione che la tecnofobia potrebbe essere presente nel DSM-IV-R tra i disturbi fobici specifici, presentando tratti comuni per livelli di ansia percepiti e pensieri persistenti. In modo particolare le sovrapposizioni con altre fobie specifiche riguardano una paura riconosciuta essere dai tecnofobici eccessiva ed irragionevole, una risposta d'ansia alla sola presenza di computer o addirittura l'insorgere dell'ansia anche solo immaginando l'immediato utilizzo del computer, ed infine l'evitamento di situazioni in cui si è costretti all'utilizzo del computer, con ovvie ricadute, specie in termini di benessere, crescita e soddisfazione occupazionale.
A queste condizioni, Rosen e Weil, in uno studio del 1995, hanno aggiunto, affinché si parli di vera e propria tecnofobia, la presenza di dialoghi interni auto-critici durante l'utilizzo del computer o di altra nuova tecnologia.
Oggi la tecnofobia è prevenibile con programmi di azzeramento informatico e con sessioni di utilizzo delle tecnologie supportate da tutors. Dal punto di vista dell'intervento clinico, Brosnan, nel 1998, ha sviluppato un intero programma di riduzione della tecnofobia, che consente di controllare ed arginare tale fobia con sessioni di desensibilizzazione all'oggetto computer o con singole sessioni da un'ora di controllo d'ansia, cui si fa seguire, a casa, la lettura di un manualetto che permette ai soggetti di potenziare le proprie strategie di coping.

Se la tecnologia vi fa paura, anche solo il pensiero di utilizzarla, sfruttarla o l’ipotesi che possa far parte della vostra vita vi terrorizza, potete finalmente dare un nome a questo vostro timore, armarvi di computer ed impegnarvi a combatterlo!

"Ci sono pochissimi mostri che giustificano la paura che abbiamo di loro." (André Gide)

mercoledì 7 dicembre 2016

Cyberbullismo, la violenza è online



Il Cyberbullismo è un fenomeno in grande crescita negli ultimi anni, un nuovo tipo di aggressività indotta dalle nuove tecnologie di comunicazione. Il cyberbullismo sebbene meno diffuso del tradizionale bullismo, coinvolge purtroppo sempre più preadolescenti e adolescenti. L'uso dei mezzi elettronici conferisce al cyberbullo completo anonimato, difficile reperibilità e di conseguenza indebolimento di remore di tipo etico. La vittima può essere colpita in qualsiasi momento.
Internet ha aperto nuove e sorprendenti possibilità per tutti noi, tuttavia vi è l'altra faccia della medaglia legata a rischi di uso improprio di questa grande risorsa. Le modalità con cui i ragazzi realizzano atti di cyberbullismo sono molti. Alcuni esempi: rubando identità per danneggiare la vittima, postando informazioni, immagini o video imbarazzanti( può sfociare nel fenomeno del sexting), insutando o deridendo la vittima.
Le conseguenze psicologiche di questo fenomeno possono essere molto gravi e addirittura portare la vittima al suicidio, purtroppo oggi sono in aumento casi di gesti estremi legati al cyberbullismo.
Oggi si cerca di informare il più possibile gli adolescenti sui rischi che incorrono in rete e di fare un' educazione attiva e responsabile dei nuovi social media. Sono presenti molte campagne contro il Cyberbullismo per fermare questo dilagante e gravissimo fenomeno che colpisce i più deboli e indifesi. Tuttavia è necessario creare una rete di informazione sempre più ampia che coinvolga non solo i ragazzi ma anche le famiglie e gli insegnati per ottenere risultati maggiormente significativi.



App per l'Autismo

Riconoscere la presenza di segni riconducibili all'Autismo, o come oggi vengono meglio identificati "Disturbi dello spettro autistico"(DSA), è molto importante per attuare un intervento il prima possibile. Spesso sono i genitori a rendersi conto delle prime avvisaglie, ma viene talvolta fatta confusione tra queste e possibili ritardi dello sviluppo non patologici.
Con la creazione di una nuova App sarà possibile riconoscere i segni del disturbo da casa, ponendo i genitori nella condizione di sapere se sono successivamente necessari altri accertamenti e di intervenire subito.
















Dopo aver ricevuto una diagnosi certa, sono anche presenti al giorno d'oggi una serie di App recenti che possono aiutare il bambino nell'allenare le abilità sociali, verbali e comunicative: l'importanza della stimolazione di queste fin dai primi esordi del disturbo è di rilevante importanza per sollecitare un eventuale miglioramento.

http://www.mamamo.it/news/le-app-per-bambini-autistici-affetti-da-autismo

Nomofobia: sindrome da disconnessione


In un intervista condotta ad aprile 2015 da ‘Il Fatto Quotidiano’ è stato chiesto ad un gruppo di persone, di diverse età, se riuscirebbero a stare senza il loro smartphone: la risposta è stata quasi del tutto unanime: “senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”. Per descrivere questo fenomeno è stato coniato un nome, Nomofobia (Sindrome da Disconnessione), ed è composto dal prefisso anglosassone abbreviato no-mobile e dal suffisso fobia e si riferisce alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile.
Gli adolescenti appaiono i soggetti prevalentemente a rischio di sviluppare questa nuova forma di dipendenza patologica, ma non bisogna sottovalutare l’impatto che la tecnologia può avere sulle nuove generazioni. Sono sempre più i genitori preoccupati perché i propri figli, anche in età infantile, passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e giochi elettronici.

I ricercatori italiani descrivono alcuni campanelli d’allarme per poter riconoscere se si sta ricadendo in questa sindrome:
  • Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso;
  • Avere uno o più dispositivi;
  • Portare sempre un caricabatterie con sé per evitare che il cellulare si scarichi;
  • Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato a causa della mancanza di campo, perché la batteria è esaurita e/o c’è mancanza di credito, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l’uso del dispositivo (come il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti);
  • Mantenere sempre il credito;
  • Dare a familiari e amici un numero alternativo di contatto e portando sempre con sé una carta telefonica prepagata per effettuare chiamate di emergenza se il cellulare dovesse rompersi o perdersi o, ancora, se venisse rubato;
  • Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate. In questo caso si parla di un particolare disturbo che definito ringxiety, mettendo insieme la parola “squillo” in inglese e la parola ansia.
  • Controllo costante del livello di batteria del dispositivo per assicurarsi che non si possa scaricare per eventuali operazioni importanti;
  • Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno);
  • Dormire con cellulare o tablet a letto;
  • Utilizzare lo smartphone in posti poco pertinenti.
    Per saperne di più: http://www.stateofmind.it/2016/01/nomofobia-dipendenza-smartphone/

Intervista a Ray Kurzweil, a un passo dal futuro


In un futuro non troppo lontano, il confine tra biologico e non-biologico sarà così sottile che anche l'essere umano trarrà beneficio da nanotecnologie direttamente nel proprio corpo. Ma come? Come si arriverà a questo?

Secondo il principio di Singolarità, a detta del professor Ray Kurzweil. Sarà possibile curare patologie al momento incurabili? Sarà possibile vivere per sempre? E implementare la propria conoscenza al di là di ogni immaginazione? Nella seguente intervista, il professore spiegherà come, e come si prospetta il futuro da qui a pochi anni.

Sembra che non manchi molto al "futuro", a quanto pare.


Sogni lucidi: da oggi la tecnologia ti da una mano!

Tutti, almeno una volta, abbiamo fatto un sogno "tanto reale che non sembrava stessi nemmeno dormendo", un sogno dove la nostra cognizione ci accompagna, consentendoci di decidere come proseguirà la nostra "avventura onirica".

L'esperienza del sogno lucido non è una novità: già a cavallo tra la fine del 1800 e l'inizio del 1900, venne infatti coniato il termine per definire la pratica dei sogni lucidi. Il termine Onironautica è un termine coniato dallo psichiatra e scrittore Frederik van Eeden per indicare "un'esperienza durante la quale si può prendere coscienza del fatto di stare sognando".

Un concorrente di un celebre talent musicale che afferma di essere un "onironauta"

In rete e in letteratura numerose sono le tecniche da sviluppare per facilitare la comparsa di sogni lucidi, una sorta di "allenamenti" che consentirebbero di prendere controllo di qualsiasi esperienza onirica provata. Nonostante siano parecchie, non sempre sembrano funzionare, e alcune persone dichiarano di non essere adatte a tali tecniche.

In sostituzione alle tecniche di allenamento ai sogni lucidi, alcuni ricercatori sembrano aver sviluppato vari dispositivi elettronici che faciliterebbero l'insorgenza di un sogno lucido. Alcuni esempi di dispositivo sono i seguenti:
  • Il Novadreamer/REMdreamer è un dispositivo a forma di mascherina con al suo interno un microprocessore che rivela, attraverso dei sensori, la fase REM di un soggetto dormiente. Rilevata questa fase, il dispositivo fa lampeggiare dei led luminosi posti nella parte posteriore della mascherina, oppure emette un suono dai suoi altoparlanti. L’avviso luminoso o sonoro viene incorporato nel sogno, e recepito al suo interno dal sognatore come un dream sign, permettendo i questo modo di riconoscere di stare sognando;
  • Il Dreamspeaker emette, durante la fase REM, dei suoni o messaggi verbali registrati per attivare il sogno lucido. È composto da un’unità di controllo, altoparlante, microfono, registratore digitale. Si può, ad esempio, registrare un messaggio tipo “tu stai ora sognando, questo è un sogno” e poi ascoltarlo in automatico quando lo strumento identifica che si sta attraversando una fase REM. Il sognatore ascolta il messaggio durante il sogno e si rende conto di stare sognando.